Linguaggio

Linguaggio(1)

Il linguaggio è al contempo una forma di conoscenza - rappresentata da tutto ciò che le persone conoscono e utilizzano nel parlare e comprendere altri che parlano -, una grammatica mentale e uno strumento di cui gli esseri umani si servono creativamente. Usato per svariate funzioni - descrivere, informare, chiedere, ingannare, persuadere o celare, per citarne alcune - il linguaggio fa degli esseri umani la specie più evoluta. La disponibilità del linguaggio ci permette infatti di impegnarci in un comportamento riflessivo impossibile, per quanto sappiamo oggi, ad altri esseri viventi. Sul piano biologico il linguaggio non è che una delle svariate forme di trasmissione e scambio delle informazioni che pervadono il mondo vivente. Nel cammino evolutivo degli esseri umani, il linguaggio e la comunicazione sono logicamente distinti ma inestricabilmente connessi. La competenza comunicativa posseduta da un adulto non è infatti formata solo o principalmente dalla conoscenza del linguaggio e delle sue regole di funzionamento; essa è ben più vasta, e comprende abilità linguistiche, paralinguistiche, cinesiche, prossemiche e sociali, molte delle quali sono padroneggiate pienamente dai bambini entro la fine della scuola elementare.

La prima, e storicamente più influente, ipotesi sul rapporto fra pensiero e linguaggio è quella del «relativismo linguistico», solitamente associata a E. Sapir e B. Whorf. In sintesi essa postula che il linguaggio determini la struttura dei processi di pensiero modificando il modo in cui percepiamo e ricordiamo. L'idea di un controllo linguistico del pensiero si basa su due assunti:

1) il relativismo linguistico, secondo cui lingue diverse segmentano il mondo e si applicano agli oggetti diversamente;

2) il determinismo linguistico, secondo cui la forma e le caratteristiche del linguaggio determinano il modo in cui pensiamo. L'ipotesi di Sapir (che si discostò ben più di Whorf dal relativismo linguistico, arrivando addirittura, negli anni '20, a negarlo) e Whorf fu ampiamente distorta, cosa non certo difficile se si tiene conto della inconsistenza delle prove antropologiche che dovevano fondarla. Risultati sperimentali poco affidabili, se non addirittura opposti, e una certa circolarità del ragionamento hanno portato a una disconferma della versione forte del relativismo linguistico, mentre molti sono pronti oggi ad accettare l'idea di un effetto indiretto del linguaggio sui processi cognitivi, soprattutto nelle fasi di codifica dell'informazione. Le differenze nei sistemi di comunicazione di individui appartenenti alle varie culture potrebbero riflettere modi storicamente e simbolicamente determinati di entrare in relazione con l'ambiente circostante, piuttosto che diversità di ordine cognitivo.

E’’’, possibile separare il pensiero dal linguaggio ? Per N. Chomsky (1980) certamente sì, dato che egli considera il linguaggio come una facoltà autonoma dal pensiero, geneticamente determinata e dotata di strutture specifiche che maturano secondo un ordine fisso, non necessariamente dipendente dallo sviluppo cognitivo dell'organismo. Anche R. Jackendoff (1996) condivide l'idea dell'indipendenza del pensiero dal linguaggio. E’’’ innegabile che il linguaggio permette varietà di pensiero più complesse di quelle a disposizione di organismi non linguistici, in quanto rende consapevoli gli elementi astratti e relazionali del pensiero (ad esempio, inferenze, situazioni ipotetiche, ragionamenti controfattuali). Divenendo coscienti, tali elementi del pensiero sono a disposizione dei processi attentivi che possono ridefinirli, arricchirli e anche renderli più concreti ancorandoli a una base percettiva. Il linguaggio ci permette, infine, di recuperare dalla memoria tanto contenuti astratti quanto esperienze percettive e di sottoporle poi ad ulteriori attività di pensiero. In pochissimo tempo i bambini acquisiscono piena padronanza linguistica di questa straordinaria facoltà mentale. Certo questo non può avvenire sulla base dell'osservazione del linguaggio adulto: gli stimoli linguistici cui il bambino è sottoposto non sono infatti sufficienti a metterlo in grado di usare il linguaggio in maniera efficace. Ciò è dimostrato da vari fenomeni: per fare qualche esempio, i bambini imparano il significato di molte parole ben prima di usarle, o usano degli ipercorrettismi applicando a forme irregolari regole grammaticali tipiche di quelle regolari, cosa che non possono aver sentito fare dagli adulti. Inoltre, anche i bambini udenti di genitori sordi «lallano» normalmente (la lallazione è una combinazione ripetitiva di sequenze consonante-vocale, vocale-consonante, ad esempio, «babà»).

Al pari di altri organi, il linguaggio cresce e matura, in gran parte, indipendentemente dall'ambiente esterno, dal quale riceve solo gli input di attivazione necessari. Il dispositivo innato per l'acquisizione del linguaggio postulato da Chomsky (1975; 1980) rappresenta l'equipaggiamento biologico con cui fronteggiamo l'universo dei grafemi, dei fonemi (le più piccole unità distintive, rispettivamente, della lingua scritta e parlata) e così via, fino alle più complesse regole sintattiche che incontriamo dalla nascita in poi. Le lingue naturali si fondano su un apparato innato e universale costituito da tratti strutturali che formano una Grammatica Universale (GU) che contiene una serie di «interruttori» di controllo che possono assumere differenti valori: l'acquisizione del linguaggio avviene attraverso una specificazione di parametri, ovvero aspetti universali del linguaggio che possono assumere una valore specifico all'interno di un insieme finito di possibilità. Questi interruttori vincolano la forma possibile della grammatica che un bambino può acquisire: l'esposizione a una lingua particolare li fissa su una posizione specifica, sulla base di un processo che tiene conto di tale esposizione. Il linguaggio, per S. Pinker (1994), è un istinto e in quanto tale non si apprende; l'apprendimento è infatti limitato alle variazioni idio-sincratiche delle singole lingue, e al diverso modo in cui le lingue selezionano i parametri fissati dalla GU.

Questo modello affida allo sviluppo cognitivo, e all'ambiente, un ruolo assolutamente periferico, in quanto le strutture mentali predisposte al linguaggio sono considerate preformate alla nascita, nell'attesa di essere attualizzate da appropriati input ambientali. All'opposto, per J. Piaget e la scuola di Ginevra, il linguaggio, essendo basato su processi cognitivi e sociali, è vincolato da prerequisiti di tipo cognitivo e percettivo. Ad esempio, per avere il concetto di oggetto e di nome il bambino deve raggiungere lo stadio della permanenza dell'oggetto; ciò spiega perché l'esplosione del vocabolario avvenga solo verso i diciotto mesi. Lo sviluppo cognitivo guida, quindi, quello linguistico in quanto parte di una più generale organizzazione cognitiva radicata nell'azione, nell'interazione con l'ambiente e in meccanismi sensomotori. D. Slobin (1985) ipotizza che il bambino non nasca con vincoli strutturali innati, bensì equipaggiato con strategie di elaborazione del linguaggio che ne guidano l'acquisizione. Una posizione intermedia è sostenuta da A. Karmiloff-Smith (1992), secondo cui la dimensione innata e universale della dotazione cognitiva degli esseri umani interagisce con l'ambiente e si sviluppa, raggiungendo elevate forme di specializzazione: il cervello non contiene strutture già preformate, essendo piuttosto predisposto a sviluppare progressivamente rappresentazioni interagendo sia con l'ambiente esterno sia con il suo stesso ambiente interno. L'interazione con l'ambiente opera filogeneticamente, selezionando i tratti interni più adatti alla sopravvivenza nell'ambiente, e ontogeneticamente, attivando e rendendo funzionanti e sincronizzate fra loro strutture innate. Leggere un testo, ascoltare qualcuno che parla o dare forma linguistica a un pensiero sono attività globali e relativamente semplici per gli adulti. La complessa architettura neurale e cognitiva del sistema di elaborazione del linguaggio fa si che, in condizioni normali, padroneggiamo questo potente strumento con competenza e velocità. Che cosa accade nel cervello quando, per esempio, riconosciamo una parola ? In poche centinaia di millisecondi distinguiamo, nella scena uditiva, una stringa di suoni, o assembliamo le lettere di una parola scritta, facciamo corrispondere a tale segnale una delle migliaia di rappresentazioni contenute nel lessico mentale (quella parte della memoria dove sono contenute le informazioni relative alle parole). Riconoscere le parole che sentiamo o leggiamo, e recuperarne il significato, sono operazioni di base della comprensione. Malgrado le proprietà acustiche dei fonemi siano in parte variabili e dipendano dal contesto, dalla velocità di eloquio e da altre caratteristiche individuali, siamo piuttosto abili nel riconoscere le unità che costituiscono il parlato. Si tratta di una capacità che i bambini acquisiscono assai precocemente e che entra in gioco automaticamente negli adulti: in un secondo il nostro cervello non riesce a distinguere dieci suoni separati, eppure possiamo capire qualcuno che parla al ritmo di venti fonemi al secondo. Uno degli indici usati in molte lingue per discriminare i singoli fonemi sono i confini delle sillabe. Le strategie di segmentazione utilizzate dai parlanti, e quindi il ruolo assegnato alla sillaba rispetto ad altre unità, dipendono dalla lingua cui essi sono stati esposti e dalla sua struttura prosodica: le persone sviluppano infatti delle strategie implicite di segmentazione della lingua madre basate sul suo ritmo tipico.

Intuitivamente, si potrebbe pensare che i processi di riconoscimento di una parola detta o scritta siano identici. Al contrario, il sistema di elaborazione del linguaggio è sensibile a tale differenza e adotta meccanismi in parte diversi. Partiamo dal parlato: esso si snoda nel tempo come un nastro di suoni complessi e coordinati che segmentiamo assegnando, al contempo, un ruolo e un significato a ciò che arriva al nostro apparato percettivo. Mentre sentiamo una parola viene mentalmente costruito un insieme di possibili candidati al riconoscimento formato dalle unità lessicali che condividono la parte iniziale della parola (grossomodo la prima sillaba). Ad esempio, nel caso di elefante, inizialmente la coorte è formata da tutte le unità che condividono la parte iniziale /el/ (elefante, elegante, elemosina, elastico, elitario, eloquente, ecc.). Man mano che altra informazione percettiva arriva, la coorte si restringe eliminando le unità prive del successivo segmento /e/ (elastico, elitario, eloquente) e così via fino a che resta un solo candidato, elefante. La parola possiede dunque un «punto di unicità» che marca il momento in cui essa diverge da tutte le altre e dopo il quale viene riconosciuta. In sintesi, il processo di comprensione di una parola procede secondo tre fasi: l'accesso, in cui la rappresentazione linguistica è usata per attivare la coorte, cui segue la selezione, e infine l'integrazione, in cui le proprietà sintattiche e semantiche della parola sono integrate nella rappresentazione complessiva della frase. Il contesto, cioè l'insieme delle informazioni linguistiche che precedono la parola, interviene nella fase di selezione e integrazione. Veniamo alla parola scritta. Nelle lingue alfabetiche ha una struttura interna complessi in cui è possibile isolare diversi elementi: intanto, i tratti che compongono le lettere dell'alfabeto, cioè la combinazione di linee verticali, orizzontali, oblique, di curve aperte e chiuse, di intersezioni e così via. Le persone sono generalmente più abili e veloci nel cercare visivamente una lettera (la Z, ad esempio) quando compare in un insieme di lettere con cui ha in comune pochi tratti (O, U, V, Z, D) rispetto al caso in cui ve ne siano molti (F, N, K, Z, X). Ma per riconoscere le parole scritte non basta combinare le lettere che le formano, in quanto occorre anche un'elaborazione globale dello stimolo. In italiano, possiamo leggere una parola scritta utilizzando due vie:

1) una via lessicale diretta in cui recuperiamo dal lessico mentale la parola (cioè l'input ortografico globale) e la sua pronuncia corretta;

2) una via non lessicale che utilizza le regole di conversione grafema-fonema tipiche di ogni lingua. Il problema nasce per le parole la cui pronuncia non si conforma alle regole tipiche dell'italiano: ad esempio, la lettura regolare di gli è quella utilizzata in glielo. In glicine, invece, le regole di conversione grafema-fonema che adottiamo normalmente per leggere gli non funzionano, dunque glicine ha una lettura irregolare, che va recuperata dal lessico mentale dove è indicata la sua specifica pronuncia. Per le parola dalla lettura regolare si può usare alternativamente la via lessicale o le regole di conversione grafema-fonema specificate nella via non lessicale. La regolarità delle lingue alfabetiche differisce ampiamente: in alcune, come l'italiano o lo spagnolo, vi è una stretta corrispondenza fra grafemi e fonemi mentre in altre, come l'inglese o l'ebraico, è quasi assente. In italiano possiamo leggere e scrivere con una certa sicurezza anche parole poco note utilizzando, come abbiamo detto, le regole di conversione esistenti. La comprensione di un discorso, benché utilizzi le parole come elementi di base, non si limita a concatenarne la sintassi o la semantica, anche perché non tutti gli aspetti sintattici e di significato di una parola sono contestualmente pertinenti. Inoltre, le intenzioni di chi parla, il registro linguistico scelto, gli effetti che si vogliono ottenere, nonché la comunicazione non verbale, incorniciano le frasi definendone il contenuto reale. La comprensione del linguaggio deve quindi integrare, rapidamente e in modo ottimale, fonti di informazione sintattiche, semantiche e pragmatiche. I meccanismi di comprensione e produzione in un dialogo debbono poi integrarsi allineando le diverse rappresentazioni linguistiche del parlante e dell'ascoltatore (due ruoli che si alternano nella stessa persona). Talvolta può essere difficile interpretare una frase in modo univoco a causa della sua struttura sintattica. Ad esempio, in «Giorgio ha detto che ha telefonato a tua madre ieri», ieri può essere riferito tanto al momento in cui è stata fatta l'affermazione («ha detto ieri») quanto a quello in cui è stata effettuata l'azione («ha telefonato ieri»). Le ricerche psicolinguistiche hanno dovuto dunque spiegare i principi in base ai quali i parlanti di una lingua assegnano una struttura sintattica a una frase. Comprendere una frase in un discorso o in un testo scritto significa formarsene una rappresentazione mentale appropriata: un'operazione in cui confluiscono fattori locali (i significati delle parti che lo compongono e le loro relazioni morfosintattiche), globali (la struttura e tipologia del testo) ed esperienziali (il piacere del testo). Chi legge un testo coopera dunque attivamente alla costruzione del suo significato, sia attivando i processi di elaborazione e le conoscenze lessicali ed enciclopediche necessarie, sia costruendo i nessi e gli elementi non esplicitamente menzionati nel testo. La rappresentazione semantica di un testo ricostruisce nella memoria di chi legge il mondo della narrazione: la trama, i personaggi, le loro azioni e reazioni, e l'ambiente in cui si svolgono i fatti. Non è dunque una semplice copia dell'input, bensì un'elaborazione filtrata che preserva le informazioni cruciali del testo originale sulla base di proprietà generali come la coerenza, l'organizzazione per relazioni temporali e causali e una struttura gerarchica che assegna maggiore rilevanza ai contenuti principali.

Dai corsi di azioni e dagli eventi tipici della vita quotidiana estraiamo delle regolarità che si consolidano e vengono mantenute nella memoria a lungo termine. Tali strutture (definite scripts, copioni) funzionano come schemi di anticipazione e permettono di efettuare inferenze o di integrare informazioni mancanti: uno script contiene infatti un insieme di elementi, obbligatori e opzionali, che specifica gli oggetti e i luoghi dell'azione, i ruoli e scopi dei partecipanti e le sequenze di azioni. Ad esempio, lo script «andare al ristorante» è costituito da scene ordinate temporalmente e spazialmente (ingresso nel ristorante, ordinazione, cena, uscita). Ognuna di esse contiene degli slot (cioè delle caselle da riempire, ad esempio «mangiare») cui è associato un valore tipico (generalmente si mangia seduti a un tavolo e non in piedi).

Parlare è l'attività cognitivo-motoria più complessa. Fondamentalmente, la produzione del linguaggio si basa su tre stadi: la concettualizzazione, la formulazione linguistica del messaggio e l'articolazione in suoni. Nella preparazione concettuale del messaggio mettiamo a punto ciò che intendiamo dire: questo stadio prelinguistico è soggetto anche a vincoli pragmatici (il registro da scegliere, le ipotesi e teorie più o meno implicite che abbiamo dell'altro, il tipo di conoscenze condivise, la struttura dei ruoli e così via). Questo insieme complesso di decisioni va sotto il nome di «macropianificazione». Per micropianificazione si intende, invece, il fatto che un concetto, per essere esprimibile in termini linguistici, deve essere tradotto in un formato specifico. Nella formulazione del messaggio vengono scelte le parole da usare e le strutture sintattiche appropriate. Specificatamente essa è composta da una fase «funzionale», in cui avvengono:

a) la selezione lessicale, in cui vengono recuperate dal lessico mentale le unità, i lemmi, che corrispondono ai concetti preparati nella concettualizzazione. Si tratta di un processo velocissimo, come mostrato dal fatto che nel parlato normale recuperiamo due o tre parole per secondo da un lessico che contiene decine di migliaia di voci. I lemmi sono unità di tipo sintattico in cui vengono specificate informazioni come il genere grammaticale, il numero, il caso (per le lingue che hanno tale specificazione), la categoria e così via. Alcuni di questi parametri vengono fissati direttamente a livello concettuale, mentre altri sono il frutto dell'accordo sintattico fra costituenti frasali. I lemmi sono unità silenti che ricevono «voce» dai corrispondenti lessemi dove sono rappresentate le forme fonologiche delle parole;

b) l'assegnazione di funzioni, cioè la determinazione, dei diversi ruoli grammaticali e sintattici delle parole.

Nella successiva fase «posizionale», il messaggio prende ordine sia dal punto di vista sintattico che semantico, cioè le funzioni grammaticali e le entrate del lessico vengono associate alle strutture frasali e alle diverse categorie di parola. Questa fase comprende: a) il recupero di informazioni sulle parole come il numero di sillabe, il luogo dell'accento, la composizione fonologica;

b) l’assemblaggio delle parole, che crea una gerarchia implicita fra gli elementi della frase, e controlla il raggruppamento e l'ordine delle parole nel corso della produzione, codificando anche le varie forme di dipendenza sintattica fra gli elementi di una frase.

La struttura della frase si costruisce incrementalmente: non appena si seleziona il primo lemma, comincia contemporaneamente la eostruzione di una struttura sintattica che continua man mano che altri lemmi vengono aggiunti. Il sistema di produzione del linguaggio è al contempo incrementale, in quanto proferiamo una parola per volta, e parallelo, dato che contemporaneamente al parlare effettuiamo svariate attività di pensiero in parte legate alla preparazione concettuale. Per proferire una parola o una frase occorre creare entità di tipo fonologico, cioè passare dal dominio concettuale/sintattico a quello fonologico/articolatorio. Mentre parliamo, effettuiamo infine anche un'attività di monitoraggio di ciò che stiamo dicendo. Quando necessario, ci auto-correggiamo in vario modo, a seconda del tipo di errore compiuto (infelicità pragmatiche, errori semantici, fonologici e così via). Ciò non riguarda solo ciò che abbiamo appena detto, ma anche ciò che stiamo per dire: possiamo infatti monitorare anche il nostro linguaggio «interno» e correggerci prima che la parola sia interamente pronunciata. Una vastissima parte del nostro repertorio verbale è formato da espressioni linguistiche dal significato non letterale, una parte già convenzionalizzata (espressioni idiomatiche, metafore congelate, proverbi, metonimie e così via) e un'altra che ancora non lo è, come in molte metafore. Questa diversificata famiglia di espressioni è accomunata dal fatto che il loro significato richiede al lettore/ascoltatore di fare ricorso a conoscenze semantiche più generali di quelle lessicali. Il linguaggio non letterale, o figurato, è diffusissimo: per ogni minuto di parlato, si è stimato che si utilizzino 1,8 metafore nuove e 4,08 metafore convenzionalizzate dall'uso. Calcolando una media di due ore di conversazione giornaliera, e una vita media di 60 anni, produrremmo 4,7 milioni di metafore nuove e 21,4 milioni di convenzionalizzate. Per comprendere un'espressione idiomatica, ad esempio, occorre andare oltre la semplice composizione dei significati delle parole che la formano, e recuperarne il significato convenzionalizzato. In altre parole, mentre per la comprensione di « Cristina era al settimo piano» sono sufficienti i significati delle parole che la formano e l'applicazione delle regole morfosintattiche dell'italiano; per «Cristina era al settimo cielo» occorre conoscere anche il significato di questa espressione idiomatica. La composizionalità dei significati delle frasi letterali vs la non composizionalità di quelle idiomatiche ha fatto si che queste ultime fossero considerate come parole lunghe elencate separatamente nel lessico mentale. Attualmente, l'ipotesi più accreditata è che non esista un elenco separato di tutte le espressioni idiomatiche di una lingua: per comprendere tali espressioni vengono attivate le stesse parole che compongono le frasi letterali e applicati processi di elaborazione sintattica analoghi a quelli applicati a queste ultime. La natura figurata dell'espressione emerge quando il lettore/ascoltatore ha a disposizione sufficiente informazione per riconoscere l'espressione come idiomatica e attivarne il significato. Ciò generalmente avviene in un momento specifico della frase, in coincidenza con una parte dell'espressione, la cui posizione può variare a seconda della struttura interna dell'espressione e del contesto linguistico che la precede. Veniamo al caso più paradigmatico di espressione figurata, la metafora. Perché la usiamo ? Per almeno tre ragioni:

a) per esprimere ciò che è letteralmente inesprimibile dal linguaggio letterale;

b) per predicare in modo compatto, spesso attraverso una sola parola, un fascio di proprietà che richiederebbe un prolisso, e spesso non esaustivo, elenco se espresso letteralmente;

c) perché maggiormente evocatrice di immagini, vivida e adeguata a esprimere l'esperienza soggettiva del linguaggio letterale. Queste sono declinazioni specifiche di un ruolo generale riconosciuto alla metafora: descrivere il nuovo attraverso il riferimento al già familiare, come quando si concettualizzano domini astratti attraverso domini concreti (ad esempio, l'estensione dei concetti spaziali al tempo) o si descrivono oggetti o eventi che non hanno un nome convenzionale. La letteratura sperimentale ha mostrato che la comprensione delle metafore non procede derivando prima il significato letterale, per poi accantonarlo se la frase, letteralmente intesa, risulta bizzarra o priva di senso. Infatti, se qualcuno dice «Internet è una miniera d'oro», l'ascoltatore non penserà che chi parla intenda affermare che Internet è una cavità da cui si estrae del materiale prezioso. In molti casi le metafore non sono dunque più complesse da comprendere delle frasi letterali. Per spiegare il funzionamento di metafore nominali come «Quell'avvocato è uno squalo» è stato proposto un meccanismo di «doppio riferimento» analogo a quello impiegato quando parliamo, ad esempio, dello Scottex per riferirci a qualsiasi tipo di carta asciugante (e non solo quella prodotta dalla Scottex): squalo fa riferimento, allo stesso tempo, a un livello base di astrazione, che comprende la creatura marina, e a un livello superordinato relativo alla categoria generale dei predatori, non solo marini. Lo squalo, in quanto elemento che nella nostra cultura tipicizza quella categoria, «presta» il suo nome a questa categoria metaforica non lessicalizzata designando tutti coloro che sono caratterizzati dalle proprietà tipiche dei predatori (aggressività, territorialità, voracità, pericolosità, ecc.). Il linguaggio figurato in generale, e la metafora in particolare, rispecchiano il modo in cui le persone concettualizzano il mondo esterno e interno, agendo da ponte fra sistema concettuale e linguaggio, fra esperienza percettiva e linguaggio.

CRISTINA CACCIARI


Linguaggio (2)

La possibilità di uno studio neuroscientifico del linguaggio dipende strettamente dalla formulazione di ipotesi sul rapporto tra una «facoltà di linguaggio», intesa come funzione cognitiva separabile, ad esempio, dal pensiero, e un organo materiale, ovvero il cervello: in altre parole, dall'incontro tra la psicologia delle facoltà e la neurofisiologia. Casi di «perdita della parola» conseguenti a lesioni del cervello sono presenti nel papiro chirurgico di E. Smith (3500 a.C.) e nel corpus ippocratico. Non è tuttavia chiaro se in queste antiche osservazioni cliniche la pura incapacità di articolare o fonare sia distinta dalla vera e propria compromissione del linguaggio. Interessanti osservazioni sono presenti in opere cliniche del XVI, XVII e XVIII secolo. Un aspetto importante che si evince dalla lettura di queste descrizioni è la distinzione tra disturbi del linguaggio e disturbi cognitivi generali, e l'accettazione dell'idea materialistica di una localizzazione delle «facoltà» nel cervello. Tale concezione culmina nell'opera dei frenologi, e in particolare di F. Gali. Il contributo di questo autore consiste nel primo tentativo sistematico di porre in diretta correlazione le funzioni della mente, o facoltà, definite secondo una bizzarra ma affascinante tassonomia, con le funzioni di aree localizzate della corteccia cerebrale. Gali ipotizza l'esistenza di una correlazione diretta tra estensione dell'area dedicata e sviluppo della facoltà specifica nell'individuo in esame. E’ curioso osservare come la sua teoria dello sviluppo volumetrico (il bernoccolo) riecheggi nei moderni risultati di neuroimaging che collegano l’expertise in un certo dominio con estensione delle aree di attivazione dimostrate mediante indagini in vivo della funzionalità cerebrale. Ad esempio, è stato dimostrato che soggetti esperti nel riconoscere una categoria di oggetti (gatti o automobili) dimostrano una maggiore attivazione di uree occipitali rispetto ai soggetti di controllo.

Tra le numerose facoltà della mente Gali individua il linguaggio, e propone come sede dell'organo corticale responsabile la porzione retroorbitaria dei lobi frontali. Tale ipotesi, a differenza di altre, viene presa in seria considerazione in ambito accademico. J.-B. Bouillaud, professore di clinica medica alla facoltà di Parigi, presenta nel 1823 una memoria, basata su una serie di osservazioni cliniche, nella quale conclude che nei lobuli anteriori del cervello risiede l'organo del linguaggio articolato, del quale la memoria delle parole non è che l'attributo. I tempi sono quindi maturi per le classiche osservazioni anatomo-cliniche di P. Broca sulla «sede del linguaggio articolato». Il merito particolare di Broca è nella scoperta della dominanza dell'emisfero di sinistra (anche se la priorità per questa scoperta va probabilmente attribuita a M. Dax, che circa trent'anni prima, in una comunicazione a un congresso, aveva descritto la relazione sistematica esistente tra emiparesi destra e afasia). E’’ dal 1861, data delle prime pubblicazioni di Broca, che si fa convenzionalmente partire la storia della moderna neuropsicologia del linguaggio.

L’interesse dei neuroscienziati ottocenteschi è rivolto in modo mirato agli aspetti sensori-motori del linguaggio, più che ai processi psicologici ad essi sottesi. Emblematica è la posizione di C. Wernicke (1874), che nella sua fondamentale monografia sostiene che è un errore diffuso tra filosofi e linguisti considerare la formazione dei concetti l'aspetto più importante per lo sviluppo del linguaggio. Secondo questi filosofi e linguisti, lo sviluppo del linguaggio seguirebbe nell'uomo attuale le stesse leggi che ha seguito tra i primi uomini. L'idea di Wernicke è che lo sviluppo del linguaggio nel bambino sia basato sull'imitazione delle parole udite: il bambino impara a connetterle con un concetto solo dopo, che la parola è da tempo in suo possesso; la parola secondo Wernicke è l'imitazione di un'immagine acustica. I disturbi delle immagini visive e tattili che costituiscono un concetto sono disturbi dell'intelligenza, piuttosto che del linguaggio. Secondo Wernicke, pensiero e linguaggio sono due processi completamente indipendenti. Va sottolineato come in ambito psicologico la teorizzazione sul linguaggio abbia un esordio relativamente tardivo rispetto all'indagine clinica. Il concetto di una facoltà del linguaggio, distinta da altre facoltà cognitive, fa parte di quello che W. Wundt (1896) chiama lo «stadio descrittivo» della psicologia empirica. Secondo Wundt, il linguaggio è uno dei «prodotti mentali» che possono essere oggetto di analisi psicologica come aiuto alla comprensione dei processi psichici più complessi. La sua concezione di base è che la funzione dell'eloquio è la condizione necessaria per l'inizio e lo sviluppo di ogni comunità mentale. Wundt propone che il «linguaggio articolato» costituisca uno sviluppo del linguaggio gestuale, permesso dalla disponibilità del senso dell'udito. Un aspetto essenziale del suo pensiero è il ruolo centrale attribuito alla frase, come elemento primitivo che esprime un contenuto di pensiero. Wundt tuttavia non ritiene possibile applicare il metodo sperimentale allo studio dei processi psichici superiori. Una posizione contrastante con quella della cosiddetta scuola di Würzburg, che tuttavia, in particolare con O. Külpe e K. Bühler, pone l'enfasi della ricerca sullo studio dei processi di pensiero, mediati attraverso il linguaggio, piuttosto che sul linguaggio stesso.

La concezione prevalente in ambito psicologico sino agli inizi del '900 è che il linguaggio non sia altro che uno «strumento di traduzione» del pensiero: nelle parole di S. Johnson il linguaggio è «l'abito» del pensiero. Una successiva reazione a questa concezione è l'ipotesi di Sapir-Whorf, che sta alla base del relativismo linguistico, secondo cui è il linguaggio a influenzare il pensiero, in particolare i processi di categorizzazione dell'esperienza percettiva. Con tutte le limitazioni, il contributo dei neurologi «localizzazionisti» allo studio neuroscientifico del linguaggio rappresenta un notevole sforzo di sintesi tra conoscenze linguistiche, psicologiche e neuroanatomiche, volto a proporre dei «modelli» dei rapporti tra linguaggio e cervello (i «diagrammi», come etichettati spregiativamente da H. Head). Il prevalere della psicologia della Gestalt sull'associazionismo, nei primi decenni del '900, ha degli effetti complessi sullo studio dei rapporti tra linguaggio e cervello. Agli studiosi di questo periodo va riconosciuto il merito di una maggiore attenzione agli aspetti psicologici: ad esempio, le intuizioni di J. H. Jackson sulla funzione preposizionale del linguaggio (1915) vengono sviluppate negli approcci teorici di studiosi come Head e, in particolare, K. Goldstein. Sul piano neurologico, tuttavia, l'approccio gestaltistico conduce a proposte molto generiche (come quella che collega la lesione cerebrale a una perdita delle capacità di astrazione) o, nel caso di Goldstein, a una sostanziale riproposizione delle correlazioni tradizionali tra sindromi afasiche e localizzazione lesionale. L'attenzione agli aspetti psicologici del linguaggio raggiunge il minimo storico in epoca comportamentistica. Non è un caso che una delle date chiave della cosiddetta rivoluzione cognitiva sia quella della pubblicazione della recensione al volume di B. Skinner sul Comportamento verbale (1957) ad opera di un giovane linguista americano, N. Chomsky (1959). La conclusione di Chomsky è che qualsiasi tentativo di spiegare il comportamento di un utilizzatore del linguaggio che non sia basato su una comprensione a priori della struttura della grammatica sia destinato a fallire. Tale grammatica può solamente essere inferita dagli eventi fisici che ne risultano. La psicolinguistica moderna esordisce con questo programma di ricerca.

Gli anni successivi alla fine della Seconda guerra mondiale sono caratterizzati da una grande ripresa delle ricerche su linguaggio e cervello, su scala mondiale. In Unione Sovietica, un ruolo centrale ha il grande neuropsicologo A. Lurija, che recherà contributi essenziali in numerose aree della psicologia e della neuropsicologia. Per quanto riguarda l'afasia, va ricordato in primo luogo il suo approccio teorico, che poneva l'accento sul concetto di sistema anatomo-funzionale, al di là delle concezioni localizzazionistiche o olistiche. Secondo Lurija, qualsiasi aspetto del funzionamento cognitivo è il risultato di una molteplicità di processi, che coinvolgono differenti sistemi funzionali. Da qui l'enfasi sulla dettagliata valutazione della presentazione clinica, mediante l'esame neuropsicologico, che consente di individuare livelli di compromissione fisiopatologia specifici. Ad esempio, un deficit della produzione dell'eloquio può conseguire a meccanismi che vanno dalla difficoltà di programmazione motoria, alla compromissione della reafferenza propriocettiva, o all'inerzia patologica dei processi neurali. L'accento sulla tradizione neurofisiologica sovietica non esclude l'attenzione verso la psicologia del linguaggio (con particolare riferimento ai contributi di L. Vigotskij sulla genesi sociale dei processi cognitivi) e alla linguistica moderna. A questo proposito va ricordato in particolare uno dei suoi ultimi contributi (Lurija, 1975), ove propone una complessiva rianalisi delle proprie descrizioni cliniche delle principali sindromi afasiche alla luce di modelli psicolinguistici ispirati alla linguistica generativa. Un ruolo analogo ha avuto l'opera di H. Hécaen, altro neurologo molto attento alla necessità di utilizzare strumenti linguistici per la descrizione della fenomenologia clinica dell'afasia. Il modello di riferimento di Hé-caen è quello della linguistica strutturale, cui si ispira anche l'opera di F. Lhermitte e di A. Roch Lecours. A quest'ultimo si dovrà lo sviluppo di un importante polo di ricerca neurolinguistica a Montreal. Negli Stati Uniti, va ricordata in particolare l'attività costituitasi intorno all'Ospedale dei Veterani di Boston. Qui si sviluppò, grazie alle attività di un neurologo, N. Geschwind, e di uno psicologo, H. Goodglass, un centro ricerche sull'afasia, che ha dato un contributo essenziale alla nascita della moderna afasiologia. I contributi principali del gruppo di Boston riguardano tutti i livelli di studio del rapporto tra cervello e linguaggio.

L'analisi del deficit afasico venne affinata attraverso l'applicazione sistematica dei risultati della ricerca linguistica, dall'analisi distribuzionale ai dati sullo sviluppo del linguaggio alle moderne teorie della grammatica.

Sul piano neurologico, la rivisitazione delle osservazioni anatomo-cliniche della tradizione neurologica europea portò alla definizione del concetto di sindrome da disconnessione, e in generale a un'attenzione particolare alla neurologia del linguaggio, aperta alle nuove possibilità offerte dai metodi di neuroimaging. Va infine ricordato, soprattutto per il contributo fornito allo sviluppo di una teoria scientifica della riabilitazione dei disturbi del linguaggio, il lavoro svolto a partire dagli anni '60 dal gruppo di Milano (in particolare da A. Basso e L. Vicinilo).

Lo studio dei rapporti tra linguaggio e cervello ha subito una vera e propria rivoluzione negli ultimi decenni ad opera di due sviluppi scientifici fondamentali: la cosiddetta rivoluzione cognitiva e la nascita delle neuroimmagini funzionali. Il primo aspetto si può considerare come un naturale sviluppo della prospettiva linguistica aperta dai gruppi di ricerca sopra citati. L'applicazione di modelli derivati dallo studio della normale elaborazione linguistica esordisce con lo studio dettagliato di singoli casi di paziente afasico, che presentano disturbi altamente selettivi, per i quali è difficile fornire un'interpretazione nell'ambito delle ipotesi tradizionali. Un importante ruolo storico ha avuto a questo proposito l'analisi degli errori semantici in lettura. L'osservazione di pazienti che, davanti alla parola «gatto», leggevano «cane» è stata interpretata facendo riferimento a modelli che propongono l'esistenza di due «vie» indipendenti per la lettura ad alta voce: una deputata alla computazione della corrispondenza di ciascun grafema con un fonema, l'altra basata sul riconoscimento della parola come entità ortografica facente parte del lessico. Un errore semantico può così essere dovuto alla totale impossibilità a utilizzare la prima via, associata a un malfunzionamento della seconda. L'osservazione che in effetti lo stesso paziente non era assolutamente in grado di leggere parole inesistenti costituisce un ulteriore elemento a favore della validità del modello. Questo tipo di procedimento scientifico, per il quale il disturbo di linguaggio costituisce un terreno essenziale per confermare o invalidare modelli della normale elaborazione linguistica, si è rivelato estremamente fecondo, in tutti i principali campi di indagine, dalla fonologia autosegmentaria ai modelli di produzione di frase. L'enfasi sullo studio di singoli casi, caratterizzata da deficit di tipo selettivo, e il riferimento a una specifica classe di modelli di elaborazione dell'informazione, caratterizzati dall'ipotesi di modularità e di serialità, ha dato luogo in anni recenti a vivaci discussioni, in particolare con i sostenitori di architetture cognitive non modulari e parallele. La vivacità, e i toni talora accesi che caratterizzano questo ambito di indagine ne testimoniano la vitalità.

Sul fronte complementare dello studio del cervello, la disponibilità di metodiche per lo studio del funzionamento cerebrale in vivo in soggetti normali ha portato a un notevole ampliamento degli strumenti di indagine della neuropsicologia, basata sulla correlazione tra deficit clinici e lesione cerebrale. L'approccio attuale, tipico delle neuroscienze cognitive, si basa sulla convergenza dei risultati ottenuti con metodiche differenti, A titolo di esempio, possiamo ricordare come nel primo studio eseguito mediante tomografia a emissione di positroni in soggetti normali (Petersen et al., 1988) si scopri che l'esecuzione di un compito «semantico», ovvero generare un verbo corrispondente a un nome fornito dallo sperimentatore, attiva aree prefrontali di sinistra. Tale osservazione era in apparente contraddizione con i risultati della neuropsicologia classica, in quanto i pazienti con lesioni prefrontali non hanno tipicamente difficoltà in compiti che riguardano l'analisi del significato delle parole. Ciò ha condotto a studi successivi, basati sia su metodiche di neuroimmagine funzionale, sia su studi di pazienti, che hanno evidenziato un contributo specifico delle aree prefrontali solo in compiti che presentano elevate richieste di selezione e monitoraggio nell'elaborazione semantica. L'accento della ricerca attuale è sull'integrazione di metodiche differenti, che consenta di osservare la relazione tra funzionamento del linguaggio e attività del cervello attraverso una molteplicità di «finestre», aperte su aspetti differenti dell'elaborazione. In particolare, la risonanza magnetica funzionale costituisce lo strumento privilegiato per la localizzazione dei processi di linguaggio; i metodi di neurofisiologia, come l'analisi dei potenziali evocati elettrici o magnetici, consente di seguirne l'andamento temporale sulla scala dei millisecondi. L'antico metodo dell'analisi psicometrica delle conseguenze delle lesioni, insieme alle moderne tecniche di «interferenza reversibile» (stimolazione magnetica transcranica) mantiene la sua funzione fondamentale di verifica delle ipotesi sul ruolo funzionale di una determinata area cerebrale. I risultati ottenuti negli ultimi anni attraverso questo approccio integrativo hanno contribuito alla ridefinizione dei ruoli funzionali di alcune aree «classiche», come l'area di Broca e l'area di Wernicke; hanno confermato l'ipotesi di sistemi funzionali complessi, e relativamente specifici, correlati ai diversi livelli di elaborazione linguistica, come la fonologia e la sintassi; hanno consentito di individuare anomalie di organizzazione in soggetti affetti da patologie linguistiche ove non sono presenti lesioni macroscopiche, come i disturbi di sviluppo; e hanno evidenziato effetti di plasticità cerebrale nelle aree del linguaggio, legati a fattori come la preferenza manuale, il multilinguismo e l'alfabetizzazione.

STEFANO CAPPA